Le assenze del lavoratore dovute a infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’articolo 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione a essa e alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex articolo 2087 c.c.
Nella vicenda in esame la Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato dalla società alla lavoratrice per superamento del periodo di comporto, ritenendo giustificata la protratta assenza della stessa dal posto di lavoro.
Ciò in considerazione della sussistenza – ad avviso della Corte di merito – di un nesso di causalità tra l’infortunio sul lavoro subito (caduta sul pavimento del punto vendita ove la dipendente era adibita) e l’assenza per malattia.
Conseguentemente, i giudici di seconde cure, omettendo di effettuare ogni indagine sui profili di colpa del datore di lavoro, condannavano quest’ultimo alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro, in applicazione dell’articolo 18, commi 4 e 7, L. 300/1970.
Avverso tale decisione la società soccombente proponeva ricorso per cassazione lamentando, tra le altre cose, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2110 c.c.
La Suprema Corte, accogliendo il ricorso datoriale, ha ribadito che la fattispecie di recesso del datore di lavoro in caso di assenze determinate da malattia del lavoratore è soggetta alle regole dettate dall’articolo 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
Proprio in relazione a tale specialità ed al contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (c.d. periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, o – in difetto di tali fonti – determinato in via equitativa dal giudice, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali.
Tuttavia – ha precisato la Cassazione – la computabilità delle assenze del lavoratore dovute a infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e, comunque, presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’articolo 2087 c.c.
Di qui la cassazione della sentenza gravata ed il rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione per la valutazione della ricorrenza della responsabilità datoriale nell’omissione delle misure necessarie per evitare l’evento dannoso.
avv. Stefania Massarenti