La diffusione delle criptovalute e dei profitti derivanti dalla loro conversione, in assenza di una solida base regolamentare, sta ponendo notevoli interrogativi in merito alla qualificazione giuridica delle stesse. Un tema ancora aperto, su cui gli interpreti sono chiamati ad interrogarsi in quanto determinante per comprendere gli istituti giuridici applicabili e le forme di tutela attivabili.
I primi tentativi di regolamentazione delle criptovalute sono, infatti, piuttosto recenti e tutt’ora si discute della loro natura anche al fine di individuarne il regime fiscale più appropriato in ragione, tra l’altro, della differenziazione soggettiva che caratterizza gli utenti della rete (miners, users, exchanger, wallet providers): aspetti fondamentali onde valutare l’applicabilità dei reati tributari previsti dal d.lgs. 74/2000. In relazione alle operazioni poste in essere dagli exchanger (cambiavalute che consentono la conversione della moneta virtuale in moneta legale – e viceversa – dietro il pagamento di una commissione), ad esempio, sia ai fini dell’imposta sui redditi (IRES) che ai fini IVA, si sono pronunciate la Corte di Giustizia dell’Unione Europea prima e l’Agenzia delle Entrate, poi, con un parere reso in occasione di interpello, ove ha affermato che “agli effetti dell’Iva, la Corte europea ha riconosciuto che le operazioni che consistono nel cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale bitcoin e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti, costituiscono prestazioni di servizio a titolo oneroso. Più precisamente, secondo i giudici europei, tali operazioni rientrano tra le operazioni ‘relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio’ di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2006/112/CE”. Pertanto, l’Agenzia ha sottolineato come questa attività abbia in astratto rilevanza sia ai fini IVA sia ai fini IRES (e IRAP) ma, per quanto riguarda l’IVA, ha precisato che “pur riguardando operazioni relative a valute non tradizionali (e cioè diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più Paesi)”, le prestazioni in esame “costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento”. Alla luce di tale qualificazione, le prestazioni in esame vengono, quindi, ricondotte, sia dalla Corte di Giustizia sia dall’Agenzia, nell’alveo dell’art. 135, paragrafo 1, lettera e) della Direttiva 2006/112/CE, ossia tra le prestazioni esenti IVA.
Per quanto concerne invece la rilevanza ai fini dell’imposta sui redditi, è stato confermato dall’Agenzia che le componenti di reddito derivanti dalla attività degli exchanger devono essere ricondotte tra i ricavi tipici dell’attività di intermediazione e conseguentemente ritenute elementi positivi che concorrono alla “formazione della base imponibile soggetta ad ordinaria tassazione ai fini IRES”.
Alla luce di quanto esposto, sotto un profilo squisitamente penalistico, potranno dunque trovare applicazione le fattispecie di cui al d.lgs. 74/2000, rientrando tali ricavi nella nozione di elementi fornita dall’art. 1, ossia “componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto”.
Detto ciò, salvo possibili contestazioni in termini di dichiarazione fraudolenta ai sensi degli artt. 2 o 3 d.lgs. 74/2000, l’ipotesi più probabile in termini di rischio penale-tributario pare essere quella di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. 74/2000, ovvero quella dell’art. 5 d.lgs. 74/2000 per omessa dichiarazione dei redditi: la prima contestazione sarà configurabile in capo all’exchanger che presenti una dichiarazione annuale contenente elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, mentre la seconda ipotesi di reato verrà in rilievo qualora ometta del tutto la presentazione della dichiarazione annuale (in entrambi i casi, ovviamente, il reato sussiste laddove verranno superate le soglie di punibilità stabilite dalle norme in esame). Ci si domanda poi se, per l’exchanger, possa profilarsi il rischio di una contestazione per omessa dichiarazione anche ai sensi del nuovo art. 5, comma 1-bis d.lgs. 74/2000, che punisce l’omessa dichiarazione di sostituto d’imposta (c.d. modello 770). Tale ipotesi di reato pare non configurabile in quanto l’Agenzia delle Entrate ha escluso che “la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa”, ciò poiché, “le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa”. In questo modo, deve anche escludersi che l’exchanger sia tenuto ad alcun adempimento come sostituto d’imposta nei confronti del cliente persona fisica. Ne deriva, pertanto, l’insussistenza di una responsabilità penale per i reati di omesso versamento, quali l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis d.lgs. 74/2000), proprio perché manca un rapporto di sostituzione d’imposta tra exchanger e cliente, e non sarà contestabile neppure l’omesso versamento di IVA (art. 10-ter d.lgs. 74/2000) perché, come detto, le operazioni in criptovalute ne sono esenti.
Per quanto riguarda le persone fisiche che utilizzano bitcoin (users) al di fuori dell’attività di impresa sembra, quindi, che le relative plusvalenze non possano essere tassate vista l’assenza di conti correnti, conti deposito e la mancanza della finalità speculativa, tipica dell’attività di impresa di intermediazione. Secondo alcuni autorevoli professionisti di settore, però, le plusvalenze derivanti dall’utilizzo di criptovalute sarebbero assimilabili ai redditi diversi di natura finanziaria, in quanto i bitcoin non sono valute estere ma sono assimilabili a titoli non rappresentativi di merce. La tassazione delle critpovalute sarebbe, quindi, paragonabile a quella delle valute estere e, pertanto, ai sensi dell’art. 67 primo comma c-ter del TUIR, le plusvalenze derivanti da valuta estera sono redditi diversi (ovvero tutti quei redditi che non trovano collocazione naturale nelle prime cinque categorie di reddito disciplinate dalla normativa fiscale). Pare, invece, che secondo l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate la persona fisica che cede criptovalute potrebbe incassare ricche plusvalenze senza subire nessun tipo di tassazione. Con la risoluzione n. 72/E/2016, l’Amministrazione Finanziaria asserisce, infatti, che: “per quanto riguarda, la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, si ricorda che le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa.”
Ad ogni modo data l’incertezza interpretativa in materia, al fine di evitare di incorrere in rischi penali-tributari i vari soggetti coinvolti dovranno seguire con molta attenzione l’evoluzione legislativa in materia.
avv. Monica Alberti