Sintesi della sentenza CGUE, Sez. V, 3 settembre 2020, C-719/18
Chiamata a dirimere una questione pregiudiziale di interpretazione del diritto europeo sollevata dal TAR del Lazio nel giudizio promosso dalla società francese Vivendi SA avverso l’ordine dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) di ridurre la propria partecipazione azionaria in Mediaset S.p.A. o in Telecom Italia S.p.A. per ragioni di tutela del pluralismo dei media e dell’informazione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha reso una sentenza che appare destinata a ridisegnare l’assetto normativo nazionale in materia di servizi di media e comunicazione, definito dal Decreto Legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi-TUSMAR, adottato in attuazione della c.d. Legge “Gasparri” 3 maggio 2004, n. 112) e dal Decreto Legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle Comunicazioni Elettroniche-CCE).
In disparte le complesse vicende societarie che caratterizzano i rapporti tra Vivendi, Mediaset e Telecom, la pronuncia della Corte di Lussemburgo si è occupata più in generale della compatibilità o meno con il diritto dell’Unione europea di una disposizione dell’ordinamento italiano – l’art. 43, comma 11, del TUSMAR – che vieta di conseguire ricavi superiori al 10% del Sistema Integrato delle Comunicazioni (cd. “SIC”, comprensivo di stampa, editoria, radio e servizi di media audiovisivi, cinema, pubblicità e sponsorizzazioni) alle imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di quel settore.
È infatti sulla base di tale disposizione che nel 2017 l’AGCOM ha vietato a Vivendi di mantenere sia le partecipazioni che quest’ultima aveva acquisito in Mediaset sia quelle che deteneva in Telecom Italia, ordinando all’operatore francese di dismettere le partecipazioni nell’una o nell’altra società, nella misura in cui eccedevano le soglie previste dalla medesima disposizione.
I Giudici europei hanno innanzitutto individuato il parametro primario di legittimità eurounitaria nell’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che per giurisprudenza consolidata osta a qualsiasi provvedimento nazionale che, pur se in astratto applicabile senza discriminazioni in base alla nazionalità, possa al concreto ostacolare o scoraggiare l’esercizio della libertà di stabilimento garantita dal Trattato.
A fronte dell’ampia portata liberalizzatrice del Trattato, la Corte europea esige non solo che (i) eventuali misure restrittive adottate dagli Stati membri siano giustificate da motivi imperativi di interesse generale (come può essere la tutela del pluralismo dell’informazione e dei media), ma anche che (ii) le Autorità nazionali dimostrino, alla stregua del principio di proporzionalità, che l’obiettivo perseguito non avrebbe potuto essere raggiunto attraverso divieti o limitazioni di minore portata o che colpissero in minor misura l’esercizio della libertà di stabilimento.
Nel caso di specie, i Giudici europei hanno ritenuto che il sopracitato art. 43, comma 11, del TUSMAR, invocato dall’AGCOM, non fosse conforme ai descritti principi, rilevando in sintesi che:
- diversamente dalle direttive europee sui servizi di comunicazione elettronica, la norma nazionale non distingue tra la produzione dei contenuti, che implica un controllo editoriale, e la trasmissione dei medesimi, che esclude qualsiasi controllo in tal senso (par. 68 sentenza); tale profilo avrebbe invece dovuto essere valorizzato per stabilire un nesso tra, da un lato, il superamento delle soglie e, dall’altro, il rischio di compromissione del pluralismo che la norma si propone di evitare (cfr. par. 70 sentenza);
- inoltre, l’anzidetta disposizione, per come interpretata e applicata dall’AGCOM, si fonda su una nozione di mercato rilevante delle comunicazioni elettroniche che non corrisponde alle attuali condizioni del settore, riferendosi ai soli mercati suscettibili di regolamentazione ex ante (servizi all’ingrosso e al dettaglio da rete fissa, servizi di diffusione radiotelevisiva e servizi all’ingrosso da rete mobile) ed escludendo invece mercati di importanza crescente per la trasmissione di informazioni, vale a dire i servizi al dettaglio di telefonia mobile e altri servizi di comunicazione elettronica collegati a Internet, nonché i servizi di radiodiffusione satellitare (cfr. par. 74 sentenza);
- in ogni caso, il fatto di conseguire o meno ricavi equivalenti al 10% dei ricavi complessivi del SIC non può essere reputato di per sé indicativo di un rischio di influenza sul pluralismo dei media, stante la pluralità e l’eterogeneità dei mercati di cui si compone il SIC (cfr. par. 75 sentenza);
- infine, l’estensione dell’ambito di applicazione della norma anche ai ricavi conseguiti per il tramite di società meramente “collegate” ai sensi dell’art. 2359, comma 3, del codice civile (ossia, quelle su cui un’altra società esercita una “influenza notevole”, che si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno 1/5 dei voti ovvero 1/10 se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati) espone le imprese al rischio che gli stessi ricavi vengano conteggiati due volte, senza peraltro che una siffatta influenza possa automaticamente ridondare in una forma di controllo tale da mettere a rischio il pluralismo (cfr. par. 76 e ss. sentenza).
Tali elementi di criticità, ad avviso della Corte di Giustizia, comportano che il sacrificio imposto alla libertà di stabilimento dal regolatore italiano, pur essendo concepito per tutelare motivi di interesse imperativo generale, non possa in definitiva considerarsi proporzionato né tantomeno idoneo a conseguire lo scopo della salvaguardia del pluralismo.
Pertanto, la Corte ha concluso che “l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che ha l’effetto di impedire ad una società registrata in un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo”.
A prescindere dall’esito che avrà il giudizio dinanzi al TAR Lazio, pare ragionevole prevedere che la profonda censura mossa dai Giudici dell’Unione (non alla ratio, bensì) ai criteri di operatività dei meccanismi antitrust risalenti alla Legge Gasparri, in uno con il vuoto normativo prodotto dalla sentenza, imporrà nel medio-breve periodo un intervento correttivo del legislatore italiano che ricolleghi i divieti di acquisizione o partecipazione societaria a situazioni di effettivo pericolo per il pluralismo dei media e dell’informazione.
Il testo ufficiale della decisione è liberamente consultabile sul sito: https://curia.europa.eu/jcms/jcms/j_6/it/.
avv. Nicolò F. Boscarini