Con il termine francese “pantouflage” (letteralmente, “mettersi in pantofole”), o con l’equivalente anglosassone di “revolving doors” (“porte girevoli”), si intende il fenomeno del passaggio di dirigenti e funzionari pubblici di alto livello che, terminato il servizio per l’ente di appartenenza, entrano nel settore privato. Tale fenomeno è generalmente percepito come un pericolo per l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto si presume che la prospettiva di passare al settore privato una volta concluso l’incarico pubblico possa influenzare l’agire del funzionario.
Anche l’Italia, nel recepire le convenzioni internazionali per la lotta alla corruzione sottoscritte a Strasburgo nel 1999 e a Merida nel 2003, si è dotata di un apposito strumento normativo volto a prevenire il fenomeno in discorso.
In particolare, attraverso l’art. 1, comma 42, della Legge 6 novembre 2012, n. 190 (cd. Legge anticorruzione), il legislatore ha integrato l’art. 53 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Testo Unico del Pubblico Impiego) con il comma 16-ter, prevedendo che:
- i dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto di pubbliche amministrazioni, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri;
- i contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione del divieto in parola sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti.
Per tale via, il legislatore ha istituito una particolare fattispecie di incompatibilità successiva che risponde ai principi costituzionali di imparzialità ed esclusività del pubblico impiego (artt. 97 e 98 Cost.), perseguendo la finalità di impedire che un soggetto che abbia lavorato nella pubblica amministrazione si precostituisca, nel corso dell’espletamento del proprio servizio, una situazione di vantaggio in vista di una futura occasione lavorativa.
Successivamente all’istituzione del divieto, l’art. 21 del D.Lgs. 8 aprile 2013, n. 39 ne ha esteso l’ambito soggettivo di applicazione anche ai titolari di contratti di lavoro autonomo, precisando che ai fini di cui sopra sono considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti titolari di incarichi dirigenziali e di responsabilità amministrativa di vertice in pubbliche amministrazioni, enti pubblici o enti privati in controllo pubblico, ivi compresi i soggetti esterni con i quali l’amministrazione o l’ente stabilisce un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo. Affinché operi il divieto di pantouflage, non è necessario che l’ex-dipendente/dirigente pubblico abbia ricoperto formalmente ruoli apicali o dirigenziali o svolto compiti di rappresentanza esterna dell’amministrazione, ma è sufficiente che lo stesso abbia collaborato all’esercizio del potere amministrativo compiendo atti interni idonei a incidere in maniera determinante sul contenuto del provvedimento finale (cfr. in tal senso orientamento ANAC 21 ottobre 2015, n. 24).
È stata altresì evidenziata la necessità di dare un’interpretazione ampia della definizione dei soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri (autoritativi e negoziali), presso i quali i dipendenti, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, non possono svolgere attività lavorativa o professionale. A tal riguardo è stato chiarito che occorre ricomprendere in tale novero anche i soggetti formalmente privati ma partecipati o in controllo pubblico, nonché i soggetti che potenzialmente avrebbero potuto essere destinatari dei predetti poteri e che avrebbero realizzato il proprio interesse nell’omesso esercizio degli stessi (orientamento ANAC 4 febbraio 2015, n. 3).
Sebbene la norma sul pantouflage non individui espressamente l’autorità competente a garantire l’esecuzione delle conseguenze sanzionatorie previste in caso di violazione del divieto, all’esito di un articolato contenzioso il Consiglio di Stato ha chiarito che siffatto potere spetta all’ANAC (Cons. Stato, sez. V, 29 ottobre 2019, n. 7411).
Il chiarimento reso dal Giudice Amministrativo appare di fondamentale importanza, atteso che le menzionate conseguenze sanzionatorie si segnalano per essere di particolare rigore (donde l’aggettivo “draconiano”, dal nome del legislatore ateniese): il comma 16-ter prevede, infatti, sia la nullità dei contratti/incarichi assunti dall’ex-dipendente/dirigente pubblico con tutte le annesse conseguenze restitutorie, sia l’interdizione dalle gare pubbliche del soggetto conferitore del contratto/incarico per la durata di tre anni. Sotto tale ultimo profilo, la violazione del divieto di pantouflage pare operare, in sostanza, alla stregua di una causa di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici, in modo non dissimile da quelle contemplate dall’art. 80 del D.Lgs. 50/2016.
Tuttavia, la casistica giurisprudenziale e le delibere dell’ANAC non hanno ancora chiarito del tutto l’esatta portata del divieto e delle conseguenze della sua violazione. È tuttora oggetto di discussione, ad esempio, se l’incapacità di contrattare operi nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni o solo con quella di provenienza del soggetto illecitamente assunto o ingaggiato. Anche a causa di simili incertezze applicative, appare quantomai opportuno che gli operatori economici effettuino analisi mirate alla luce dell’art. 53, comma 16-ter, D.Lgs. 165/2001, prima di procedere all’assunzione o comunque al conferimento di un incarico a un ex-dipendente/collaboratore pubblico.
avv. Nicolò F. Boscarini