L’art. 5, comma 1, lett. c) della L. 30 aprile 1962, n. 283, legge di tutela della genuinità dei prodotti alimentari posti in commercio, vieta l’impiego nella preparazione di alimenti o bevande, la vendita, la detenzione per vendere o la somministrazione come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari “con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno stabiliti dai regolamenti di esecuzione o da ordinanze ministeriali”.
La medesima legge, all’art. 19 prevede una esenzione per il “commerciante che vende, pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo prodotti in confezioni originali, qualora la non corrispondenza alle prescrizioni della legge stessa riguardi i requisiti intrinseci o la composizione dei prodotti o le condizioni interne dei recipienti e sempre che il commerciante non sia a conoscenza della violazione o la confezione originale non presenti segni di alterazione”.
È previsto, quindi, che sia escluso dal raggio di applicazione dell’art. 5 il soggetto che tratti “prodotti in confezioni originali”, ovvero prodotti in recipienti o contenitori chiusi destinati a garantire l’integrità originaria della sostanza alimentare da qualsiasi manomissione e ad essere aperto esclusivamente dal consumatore.
Diversamente, quando i prodotti alimentari non sono confezionati in involucri o recipienti sigillati, che non ne consentono l’analisi senza il loro deterioramento o la loro distruzione, il commerciante risponde a titolo di colpa della non corrispondenza del prodotto alimentare alla norma di legge (cfr. Cass. Pen. sez. III, sent. n. 5973 del 7.2.13).
La terza sezione della Cassazione penale, con la sentenza del 30 agosto 2023, n. 36173, si è pronunciata su un ricorso proposto avverso la pronuncia con cui il Tribunale aveva condannato il titolare di un esercizio di ristorazione per aver detenuto per la vendita alimenti con cariche microbiche superiori ai limiti di legge.
Nella pronuncia la Corte ha osservato come non risultando che i prodotti alimentari, costituiti da mitili, rinvenuti presso l’esercizio commerciale mostrassero le caratteristiche di impacchettamento in confezioni originali, il commerciante non potesse andare esente da colpa per non essere stato “in grado di svolgere degli accurati controlli sulla contaminazione batterica presente o meno sugli stessi, dovendosi ritenere che, chi intenda esercitare un determinato commercio, debba dotarsi dei mezzi idonei acciocchè quest’ultimo venga esercitato lecitamente, essendo colposo, quantomeno per imprudenza, il comportamento di chi, non essendo in grado di svolgere tali opportuni controlli, si assuma il rischio di acquistare per la rivendita prodotti alimentari contaminati”.
È chiaro che lo scopo della previsione di cui all’art. 5 è quello di garantire la assoluta igienicità delle sostante alimentari attraverso il divieto di produzione e messa in commercio non solo di alimenti in cattiva conservazione o con cariche microbiche eccedenti determinati limiti o invase da parassiti, insudiciati o in stato di alterazione o contenenti additivi chimici non consentiti, ma anche di alimenti che possono essere “comunque nocivi” alla salute. E ciò senza che, peraltro, sia necessario l’accertamento della nocività delle sostanze impiegate dato che è sufficiente il mancato rispetto dei limiti imposti a garanzia della qualità del prodotto.
Di questa non corrispondenza può essere ritenuto responsabile anche il commerciante che non abbia provveduto ad effettuare i dovuti controlli sulla merce messa in vendita se questa non gli è stata consegnata dal fornitore in “confezioni originali” atte a garantire l’integrità originaria della sostanza alimentare da qualsiasi manomissione.
avv. Federica Beltrame