Presentato da ANAC come un “nuovo modo” di intendere la PA, il whistleblower introdotto dall’art. 1 comma 51 l. 190/2012, mutuato dall’esperienza anglosassone, ha l’ambizione di avviare una vera e propria rivoluzione culturale che coinvolga il dipendente pubblico nella diffusione di modelli virtuosi di comportamento.
Un dubbio però accompagna il dipendente che viene a conoscenza di un illecito: to blow or not to blow the whistle?
Dubbio dettato dai gravi rischi cui si espone il soggetto segnalante chiamato a muoversi su un terreno scivoloso a causa delle insidie normative e delle implicazioni sociali, elementi che di fatto disincentivano la pratica del whistleblower.
A tutto ciò ha tentato di porre rimedio la L. 179/2017 laddove, accogliendo gli orientamenti espressi da ANAC, ha ridefinito i confini di operatività delle tutele contro ogni forma di discriminazione o sanzione prima di tutto quando la segnalazione sia compiuta nell’interesse esclusivo della PA; ha garantito maggior riservatezza al segnalante; ha invertito l’onere della prova in capo all’amministrazione (che dovrà dimostrare che la misura disposta nei confronti del segnalante sia motivata da ragioni estranee alla segnalazione); ha conferito ad ANAC il potere di sanzionare il responsabile che abbia adottato la misura discriminatoria, che non ha posto in essere procedure conformi alle linee guida ANAC per gestire la segnalazione oppure abbia omesso di verificare o analizzare le segnalazioni.
Nonostante tutto ciò, la logica del sospetto permane ancora in capo al dipendente che decidesse di collaborare con lo Stato.
E allora, non dovremmo iniziare a pensare da un lato a snellire la burocrazia, foriera di scorciatoie ed escamotages, e dall’altro a sistemi premiali per il whistleblower quando la segnalazione abbia consentito di porre rimedio a un comportamento illecito?
avv. Monica Alberti